Intervista Dottoressa Luperto

1. Perché i giovani oggigiorno vanno all’estero? Perché i giovani laureati non trovano lavoro? Oltre la povertà quale causa li ha spinti ad emigrare? In generale quali sono le motivazioni che spingono le persone ad emigrare?

Le cause che spingono le persone ad emigrare sono tantissime e generalizzare ci porta a semplificare la questione. Per chi lavora nel settore dell’immigrazione c’è l’idea di capire quali siano le cause, a seconda del Paese di provenienza. Ci sono dei Paesi, ad esempio, la Siria, l’Afghanistan, il Pakistan, dai quali si emigra fondamentalmente per guerre e conflitti. Ci sono però anche tanti Paesi dell’Africa da cui si emigra per una forte povertà e per povertà non si intende solo una povertà economica, ma anche proprio di accesso ai diritti che sono garantiti a livello internazionale, tipo il diritto all’istruzione e il diritto all’unità familiare. Le cause dell’emigrazione sono a volte legate ad una progettualità, dunque all’idea di migliorare la propria vita, che poi è il motivo che ha spinto me a migrare, che spinge tanti italiani a migrare. Ci sono altre forme di emigrazione che sono invece delle emigrazioni forzate, quindi non c’è un progetto di vita, ma c’è proprio l’intenzione di salvare la propria vita e quella della propria famiglia, quindi non c’è molta scelta.

2. A suo modo possiamo dire che anche lei è un’emigrante: come ha vissuto la sua esperienza di emigrante? I migranti che lei accoglie mostrano capacità di adattamento o difficoltà?

Per me non è stato facile. Stiamo parlando della stessa nazione, ma passare da Lecce a Forlì prima e a Bergamo poi, è un cambiamento sotto tanti punti di vista: in primis climatico, poi c’è il distacco dai legami familiari, dai punti di riferimento, per cui chi emigra come me per motivi di lavoro può viverla in termini positivi sotto questo aspetto, ma in termini negativi se si analizzano questioni emotive quali la lontananza dalla famiglia, la lontananza dal mare e cerca di ricostruire tutto. Riguardo le persone che seguo, la capacità di adattamento dipende molto da dove si proviene, dipende molto anche dall’età: per un ragazzo diciottenne che viene dal Gambia è molto più semplice adattarsi perché ha più margine di tempo, non ha esperienze lavorative, non ha grosse responsabilità, quindi c’è più capacità, c’è più flessibilità nel mettersi in gioco rispetto al padre di famiglia che arriva dall’Iraq e che magari nel paese d’origine faceva l’ingegnere o il medico e magari in Italia si ritrova a dover ricominciare tutto da capo. Quindi, banalmente, sia da un punto di vista linguistico che lavorativo, la tendenza è pensare che tutto quello che è successo in passato sia cancellato, invece non è così, il nostro lavoro è proprio valorizzare le competenze pregresse.

3. Ha avuto modo di confrontarsi con migranti che manifestavano una particolare nostalgia della propria terra? Chi è arrivato dall’estero è riuscito a creare una sua rete di amicizie?

La nostalgia di casa c’è in tutti, la variabile è quanto è forte. A volte c’è appena arrivati in Italia, perché le aspettative sono molto alte e ci sono delle cose che in realtà non si avverano immediatamente. Ci sono persone che la sentono dopo, perché iniziano a pensare a quanto sarebbe bello fare in modo di far vivere alla propria famiglia la stessa vita che vivono loro in Italia, stare insieme, e creare una rete sul territorio è uno degli obiettivi che tutti i centri di accoglienza devono porsi, perché sono progetti con una data di scadenza. I legami si creano con i connazionali, poi man mano aumentano all’aumentare dell’inclusione della persona sul territorio.

4. Dal punto di vista culturale come vive l’inserimento il migrante? La religione, il cibo, le abitudini si perdono o vengono rafforzate?

Questa domanda è molto difficile. Il problema, se problema lo vogliamo chiamare, è che lo choc culturale c’è e c’è soprattutto per gli uomini. Per esempio, la gestione domestica in alcune culture riguarda solo le donne, quindi nella fase di inserimento iniziale rientra nello choc culturale il saper usare i detersivi, piuttosto che riuscire a muoversi nel territorio con i mezzi pubblici, riconoscere istituzioni diverse dal proprio paese d’origine, perché ad esempio in alcuni paesi l’anagrafe non c’è. O se ti rubano qualcosa, non si è soliti andare a fare denuncia alla polizia, perché nei loro paesi il livello di corruzione è molto alto. L’inserimento serve proprio ad abbassare il livello di choc culturale. A prescindere dalla provenienza, chi arriva affronta un periodo medio-lungo di convivenza non tanto con gli italiani, ma con gli stranieri di Paesi e provenienze diverse, quindi sin da subito le persone che viaggiano si trovano a condividere culture, religioni, cibi, lingue, diversi. Il mantenere questi aspetti (non in maniera radicale) in un paese diverso da quello in cui sei nato e sei cresciuto contribuisce a mantenere un’identità. Quindi bisogna convivere tutti insieme, ma tendenzialmente chi arriva in Italia mantiene la cultura da cui proviene. La mescola con quella di chi incontra, però l’identità rimane presente.

5. Cosa succede quando non riescono a mettersi in contatto con le famiglie, magari a causa di problemi di connessione? Come vengono aiutati per quanto riguarda il ricongiungimento familiare?

Il contatto con le famiglie è uno dei primi miti da sfatare.  Quello che si legge sui giornali è “Le persone arrivano con questi telefoni supertecnologici, come fanno a comprare i telefoni??” In realtà, il telefono con una buona connessione internet è l’unico modo che le persone hanno per mettersi in contatto con le proprie famiglie. Per chi lavora alla frontiera (io ho lavorato alla frontiera tra Marocco e Spagna), chiamare la propria famiglia, magari dopo mesi che si è intrapreso questo viaggio, può voler dire “Sono vivo! Ce l’ho fatta!”, quindi ha un valore non solo di contatto con la famiglia, ma anche di riuscita di un progetto migratorio, che magari è durato mesi o anni. Sul ricongiungimento familiare, in Italia c’è proprio una legge all’interno del diritto dell’immigrazione che sancisce quali sono le regole per far venire la famiglia in Italia. Tra queste regole c’è, per esempio, il fatto che per quasi tutti gli stranieri, tranne alcune situazioni particolari, bisogna dimostrare di avere una casa adeguata, di produrre un reddito per poter sostenere la famiglia e bisogna dimostrare che i familiari che si vogliono far arrivare in Italia sono effettivamente famiglia. Per esempio, può arrivare la moglie, ma non può arrivare il fratello; può arrivare il figlio, ma non può arrivare la zia. Quindi anche chi può arrivare in Italia come familiare è stabilito dalla legge. Famiglia non è qualsiasi familiare, solo alcuni possono venire in Italia.

6. Come funzionano le SPRAR? Il corso di lingua viene svolto nelle SPRAR oppure nelle scuole? Gli italiani mostrano interesse ad imparare la loro lingua (francese e inglese)?

Dal 2021, il Ministero ha chiesto di far passare l’insegnamento della lingua negli SPRAR da dieci a quindici ore settimanali. Ogni progetto, in qualsiasi territorio,  in qualsiasi regione, ha la possibilità di organizzarsi come preferisce. Per esempio, il progetto che io coordino adotta un modello misto; c’è un insegnante interna che insegna italiano ed in più i ragazzi inseriti in questo progetto vanno ad una scuola esterna, questo sia per creare una rete e dare quindi la possibilità di conoscere altri stranieri, ma anche per avere un rapporto con le istituzioni come ad esempio la scuola. La curiosità di imparare la lingua c’è, ma non c’è per tutti. Tanti progetti organizzano i “tandem linguistici”: un cittadino straniero che parla inglese incontra un cittadino italiano che parla italiano e fanno conversazione nelle due lingue. Questo perché il messaggio che si vuole far passare è che chi arriva non dev’essere considerato sempre un peso, ma anche una risorsa per il nostro territorio e quindi favorire gli scambi alimenta anche la curiosità nel cittadino italiano.

7. Che requisiti devono avere i CAS per accogliere i migranti? Quali sono le condizioni degli extracomunitari che ospitano?

Su questa domanda devo fare una specifica: solitamente la legge nazionale è proprio un quadro generalissimo. Sui territori, per i CAS, sono le singole Prefetture che decidono nello specifico quello che deve essere dotato del progetto. Sicuramente, dopo il decreto Salvini, i servizi erogati nei CAS sono proprio servizi minimi, cioè la persona arriva dalla Libia o dalla rotta balcanica, viene collocato in questo centro e vengono erogati servizi minimi, cioè un posto in cui dormire, un pocket money di due euro, due euro e cinquanta al massimo, del cibo. Viene garantita solitamente anche l’informazione legale, in modo tale che le persone siano consapevoli di quello che gli sta succedendo, di quali sono i loro diritti, e viene garantita la mediazione linguistica. I servizi più complessi, che hanno per obiettivo l’integrazione vera e propria, riguardano gli SPRAR, quindi un progetto di secondo livello.

8. In Puglia dove si trovano i CAS e le SPRAR? Quanti sono?

Su questa domanda non riesco ad esservi molto utile, non essendo il mio territorio. Da quanto so, gli SPRAR sono in tutte le province e la Puglia storicamente è territorio di immigrazione. Già dagli anni Novanta con l’immigrazione dall’Albania la Puglia è stata soggetta agli arrivi. Quindi i CAS  e gli SPRAR ci sono praticamente ovunque, con numeri anche più alti rispetto a dove vivo io.

9. Quali titoli di studio bisogna possedere per fare il suo lavoro? Come coniuga questo mestiere alla sua vita privata?

I titoli di studio sono molto vari, perché solitamente nei progetti come quello in cui lavoro io, si lavora in equipe multidisciplinari perché c’è proprio l’intenzione di far lavorare insieme persone con trascorsi anche accademici molto diversi. Non esiste un profilo professionale uguale per tutti. Riguardo me, non è un lavoro d’ufficio, una volta finito il lavoro non si stacca. Ogni persona è una storia a sé, quindi è inevitabile che si pensi alla storia di ogni persone e infatti i progetti prevedono delle strategie che aiutino anche gli operatori, tipo la supervisione dello psicologo una volta al mese, col quale condividiamo la difficoltà di tenere vita lavorativa e vita privata.

10. Che differenza c’è tra migranti e rifugiati? Quali caratteristiche ha il richiedente protezione internazionale?

La differenza la stabilisce un po’ la legge. Il migrante è “semplicemente” la persona che migra, senza spiegare il motivo. Il rifugiato, nella definizione della Convenzione di Ginevra, non può o non vuole rimanere nel suo Paese d’origine a causa di discriminazioni e persecuzioni che derivano dal fatto di appartenere ad una religione diversa, ad un gruppo etnico diverso, ad un orientamento sessuale diverso, una minoranza linguistica diversa. Quindi nel rifugiato non c’è una progettualità, c’è un voler salvare la propria vita.

11. Considerando il criterio del massimo ribasso come si riesce a mantenere un migrante con 35 euro al giorno?

Sicuramente la qualità del lavoro è cambiata, lo voglio specificare, solo all’interno dei centri di prima accoglienza, negli SPRAR non è cambiato nulla. Ma chiaramente, con l’abbassamento delle risorse, si è dovuto dare priorità ai servizi minimi. Se fino a tre anni fa c’erano le risorse per andare un po’ oltre (laboratori, scuola di italiano, inserimenti lavorativi), adesso tutti questi servizi sono stati pressoché eliminati e delegati alle accoglienze di secondo livello. La qualità dipende poi da chi gestisce i progetti, ma sulla carta si abbassa non la qualità ma i servizi erogati.

12. Perché quando si imbarcano i migranti vengono maltrattati? Perché non vengono “sfruttate” le immagini catturate dai migranti durante i viaggi per sensibilizzare l’opinione pubblica?

Sul fatto che i migranti vengano maltrattati, questo riguarda più la politica internazionale, perché il fatto di considerare queste persone che emigrano come fonte di denaro, fa sì che si cerchi di recuperare il denaro in tutti i modi. Quindi, quando ad esempio un migrante è in un carcere libico, più viene picchiato, più viene maltrattato, maggiori sono le possibilità che la famiglia mandi i soldi per far sì che questi maltrattamenti finiscano. Quindi, alla base dei maltrattamenti ci sono motivi economici. Le immagini che dovrebbero essere usate per la sensibilizzazione a volte si pensa che siano manipolate e non siano vere. Quindi anche il considerare le immagini come uno strumento per falsificare la realtà, fa perdere peso alle immagini stesse. Il tentativo c’è, ma ci sono persone che non credono neanche alle immagini.

13. Perché i migranti preferiscono rischiare la vita, considerando tutti i pericoli?

Perché non hanno niente da perdere. Mi è capitato di fare tante volte questa domanda in otto anni e tante volte, a prescindere dall’età e dalla provenienza, la risposta è stata sempre la stessa: “Io rischio la vita perché non ho niente da perdere.” Una minimissima percentuale di arrivare vivo in Europa è meglio della morte certa.

14. Se un migrante volesse tornare nel suo paese nonostante la guerra, come vi comportate? Lo aiutate a distanza?

Gli operatori non si sostituiscono mai alle persone che hanno in accoglienza. Quello che nhoi facciamo con tutte le persone che accogliamo è accompagnarle ad un percorso individuale. Ognuno è una storia a seè, una vita diversa. Quando manifestano queste volontà, noi abbiamo il dovere di esplicitare i rischi e capire il perché di questa richiesta. Se però la persona è convinta, anche in seguito ai colloqui con lo psicologo, si contattano le varie realtà che si occupano di rimpatri e si capisce come intraprendere il percorso. Solitamente, in questi programmi, che si chiamano “Programmi di rimpatrio assistito” c’è la volontà, il chiedere di rientrare e quindi la stessa organizzazione che ti ha pagato il viaggio ti supporta.

15. Cosa sono le ONG? Come si sostentano?

Le ONG sono organizzazioni non governative. Non rappresentano lo Stato, sono autonome ma sono comunque regolate dalla legge. Esse si basano su donazioni e all’interno di ogni ONG ci sono degli uffici dedicati (uffici di progettazione o found raising) che hanno come obiettivo proprio il raccogliere i fondi per ciò che si vuole realizzare.

16. Quanto ha impattato Schengen sul discorso immigrazione?

Schengen e il Regolamento di Dublino hanno impattato tanto. Se penso a quando io ho inizato, il migrante aveva come pensiero l’arrivare nell’area-Schengen, perché una volta arrivato in Europa poteva scegliere dove andare. Il trattato di Dublino ha messo tutta una serie di regole e in queste regole l’Italia è rimasta ingabbiata, perché questo dice che il Paese in cui arrivi deve prendere le tue impronte digitali e registrarti. Chiaramente, essendo l’Italia il Paese di quasi tutti gli arrivi, molte persone sono rimaste ingabbiate in Italia nonostante non fosse questo il loro progetto migratorio. Ci sono stati tanti migranti che ho conosciuto che provenendo da ex colonie francesi, avevano in programma di andare in Francia, per non avere problemi di lingua. Il problema della lingua è un problema importante.

17. Che lavoro si fa sulla parte “criminale” dei migranti? Perché non vengono immediatamente rispediti nel loro paese?

Questa questione è molto più complessa rispetto a quello che si dice. Se un migrante commette un crimine ci vuole del tempo per essere condannato (sappiamo bene i tempi della giustizia italiana)(. In secondo luogo, non tutti i migranti arrivano in Italia con il passaporto. Questo mette l’Italia nelle condizione di non sapere dove rimandare il soggetto in questione e dunque servirebbero degli accordi tra l’Italia e i vari Paesi d’origine. Se un tunisino commette un crimine ma io non so se è realmente tunisino, posso chiamare l’ambasciata tunisina e chiedere. Ma questo purtroppo non accade con tutti i Paesi.

18. Quanto la mafia incide nel traffico degli immigrati, anche a livello internazionale?

Incide tanto e incide in tutte le fasi della migrazione. Trattandosi di una migrazione non legale, la mafia ha un peso enorme nel garantire viaggi e lo sfruttamento e la pressione continua anche quando queste persone arrivano in Europa. Le vittime della tratta nigeriana ad esempio hanno delle persone che le prendono criminalmente in carico quando arrivano in Italia, ad esempio.

19. Perché in alcune zone dell’Italia gli immigrati vengono accolti meglio di altre? Cosa si può fare per rendere più ospitale e tollerante la popolazione nei loro confronti?

Sulla qualità dell’accoglienza non si può fare molto. Nel progetto SPRAR noi abbiamo un controllo su come lavora l’equipe, su come sono le strutture, su come sono i lavoratori, e il valore aggiunto è che queste persone parlano anche con chi è intorno al progetto. Incontri come quello che stiamo facendo oggi sono un modo per sensibilizzare la comunità, perché abbiamo modo di dare informazioni oggettive, che nulla hanno a che fare con la politica. Io non ho nessun interesse politico, vi sto raccontando il mio lavoro, con aspetti negativi e aspetti positivi. L’altra cosa che si potrebbe fare è dare voce e spazio agli stranieri che hanno avuto successo in Italia, perché non tutti sono delinquenti, ci sono delle persone che ce l’hanno fatta, che vivono qui da tantissimi anni e sono diventati cittadini italiani. Questi percorsi di successo servono a sensibilizzare la popolazione italiana, a far capire che lo straniero non è un peso, ma una risorsa.

 

 

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